Rent to buy e clausola sull’acconto prezzo in caso di mancato acquisto
Il problema della validità della pattuizione che riconosce al concedente il diritto di trattenere anche la parte di canone ricevuta quale acconto sul prezzo di vendita.
Si discute circa la validità della clausola inserita in un contratto di rent to buy con cui si riconosce al concedente il diritto di trattenere l’intero canone già ricevuto a titolo di acconto sul prezzo dell’immobile oggetto del contratto in caso di mancato acquisto dello stesso da parte del conduttore.
Nozione e fonti normative
Il contratto di rent to buy è stato introdotto nell’ordinamento giuridico italiano nel 2014, con il c.d. Decreto-legge (c.d. ‘Sblocca Italia’) n. 133/ 2014 (convertito in l. 164/ 2014), dopo una lunga prassi di utilizzo dello strumento quale contratto atipico, al fine di incentivare la circolazione dei beni immobili in un mercato fortemente colpito dalla crisi economica del 2008.
La sua disciplina giuridica è interamente contenuta nell’art. 23 della normativa, che induce l’interprete a classificarlo come contratto di godimento in funzione della successiva alienazione. Tale contratto viene legislativamente definito come quel contratto, caratterizzato dalla immediata concessione al conduttore del godimento di un immobile, con diritto per quest’ultimo di acquistarlo, entro un determinato termine, mediante imputazione al corrispettivo pattuito per il trasferimento, della parte di canone indicata nel contratto.
Il rent to buy può essere sostanzialmente assimilato ad un contratto di locazione con opzione di acquisto, da cui deriva un vantaggio per entrambi i contraenti: al conduttore è assicurato il godimento immediato dell’immobile per un determinato periodo di tempo dietro il corrispettivo di un canone periodico, con il diritto di acquistarlo solo in un secondo momento
ed a un prezzo inferiore, grazie alla imputazione al prezzo complessivo dei canoni già corrisposti, o di parte di questi e al contempo il venditore percepisce un immediato beneficio economico, sfruttando la potenzialità economica dell’immobile nell’attesa di alienarlo.
Trattasi, quantomeno nella prima fase, di contratto ad effetti obbligatori: con la conclusione dello stesso non si verifica alcun fenomeno traslativo, ma solamente la concessione del bene in godimento in funzione di una successiva alienazione.
Il contratto di rent to buy può avere ad oggetto beni immobili, di qualsiasi natura, non solo di tipo e ad uso residenziale ma anche commerciale e produttivo, inclusi i terreni.
Struttura bifasica del contratto
La particolarità del rent to buy è la sua struttura bifasica, con una seconda fase solo eventuale.
La prima fase dell’operazione può essere ricondotta al tipo della locazione, ed è caratterizzata dalla immediata concessione, da parte del locatore al conduttore, di un immobile in godimento per un determinato periodo di tempo, dietro il pagamento di un canone, con la particolarità per cui il conduttore acquista, altresì, diritto di decidere, una volta superato tale periodo di tempo, se acquistare o meno il bene.
La seconda fase dell’operazione è caratterizzata dal possibile esercizio, da parte del conduttore, del diritto di acquistare l’immobile. Trattasi di diritto, non di obbligo, come espressamente previsto dall’art. 23 del d.l. 133/ 2014. Sicché il perfezionamento della vendita, una volta superato il termine stabilito dal contratto, dipende unicamente dalla volontà del conduttore, il quale, dunque, sostanzialmente vanta un’opzione di acquisto, con diritto di essere preferito rispetto ad altri potenziali acquirenti dell’immobile.
Bipartizione del canone, effetti in caso di mancato acquisto e inadempimento
Elemento essenziale del contratto di rent to buy è l’indicazione del canone. Rectius, la determinazione delle due componenti che lo integrano: da un lato, la quota di canone che il conduttore deve corrispondere al locatore per il godimento del bene; dall’altro lato, la quota di canone che il conduttore deve corrispondere al locatore quale imputazione al prezzo finale dell’acquisto nel caso in cui il primo, entro il termine stabilito, decida di esercitare il diritto all’acquisto dell’immobile stesso, con la conseguenza che tale seconda componente patrimoniale del contratto può, più correttamente, essere qualificata come corrispettivo, essendo funzionale all’effetto traslativo del bene e non al suo godimento.
La determinazione dell’ammontare dell’una e dell’altra componente sono rimesse alla autonomia contrattuale ex art. 1322 c.c., attenendo alla determinazione del contenuto del contratto sotto il profilo patrimoniale: le parti, tuttavia, non possono escludere tale bipartizione, trattandosi di elemento essenziale del contratto, strettamente correlato alla finalità perseguita dal tipo contrattuale e connotante quindi la causa in concreto del contratto stesso, integrando, nella sostanza, la funzione economico e sociale che le parti vogliono attuare con la sua stipulazione.
Al contempo, le parti dovranno stabilire anche la quota di canone – imputata al corrispettivo – che il concedente deve restituire al conduttore qualora questi decida di non esercitare il diritto di acquisto entro il termine stabilito, e dunque la proprietà rimanga in capo al locatore.
Nel qual caso, avendo il conduttore un diritto e non un obbligo, non si determina a carico del conduttore alcun inadempimento.
Dalla disposizione citata emerge chiaramente che, in caso di mancato acquisto dell’immobile nel termine contrattualmente convenuto, il conduttore ha diritto alla restituzione di quella componente di canone che, per determinazione contrattuale, è imputabile al prezzo di acquisto, salvo il diritto invece della parte concedente di trattenere la parte di canone imputata a titolo di remunerazione per il godimento.
La bipartizione del canone spiega i suoi effetti anche in caso di inadempimento, come puntualmente previsto dal comma 5 dell’art. 23. La disposizione prevede due casi distinti: se il contratto si risolve per inadempimento del concedente, egli deve restituire al conduttore la parte dei canoni originariamente dagli stessi imputata al corrispettivo, maggiorata dagli
interessi legali. Ciò perché, evidentemente, in questi casi il conduttore non ha potuto, a causa dell’inadempimento del concedente, esercitare il proprio diritto di acquisto e dunque il legislatore ha ritenuto che lo stesso debba sostenere solamente la parte di canone imputata al godimento, e non anche quella imputata al corrispettivo.
Al contrario, se la risoluzione per inadempimento interviene a causa del conduttore (ossia in caso di mancato pagamento di un numero di canoni concordato dalle parti ma, in ogni caso, non inferiore ad un ventesimo), il concedente ha diritto non solo alla restituzione dell’immobile, ma acquisisce altresì interamente i canoni percepiti a titolo di indennità, se non è stato diversamente convenuto nel contratto. Sicché, se le parti non hanno previsto diversamente, il concedente, in caso di inadempimento del conduttore, avrà diritto a trattenere tutti i canoni già percepiti nella loro interezza, e dunque sia la parte di canone imputata al godimento, sia la parte di canone imputata al corrispettivo. È necessario, tuttavia, che l’inadempimento del conduttore rivesta il carattere della gravità, individuato dal comma 2 dell’art. 23 nell’omesso pagamento, anche non consecutivo, di un numero minimo di canoni, determinato dalle parti, e comunque non inferiore ad un ventesimo del loro numero complessivo.
Quella prevista dal comma 5 dell’art. 23 (ossia l’inadempimento contrattuale imputabile al conduttore) risulta essere l’unica ipotesi prevista dal legislatore in cui la parte concedente ha diritto a trattenere l’intera quota dei canoni corrisposti dal conduttore, in quanto comprensiva anche della quota imputata al prezzo di vendita.
Validità (?) della clausola contrattuale che riconosce al concedente il diritto di trattenere la quota di canoni imputata al prezzo di vendita in caso di mancato acquisto del bene.
Alla luce delle superiori considerazioni, risulta controversa la validità della clausola con cui le parti di un contratto riconoscono al concedente, in deroga alla disciplina sopra richiamata, il diritto di trattenere anche la parte di canone ricevuta quale acconto sul prezzo di vendita qualora il conduttore non eserciti l’opzione di acquisto entro il termine indicato.
Il problema che l’interprete è chiamato a risolvere è, quindi, verificare se il dispositivo dell’art. 23, comma 1-bis sia o meno qualificabile come norma imperativa e come tale inderogabile, oppure se, viceversa, l’intera disciplina del corrispettivo sia rimessa alla libera determinazione dei contraenti.
Secondo il dettato dell’art. 23, comma 1-bis, l’importo dei canoni ricevuti a titolo di acconto per l’acquisto dell’immobile deve essere restituito al conduttore che non abbia esercitato il diritto di acquisto. E infatti, in caso di mancato perfezionamento della vendita, la ritenzione della parte di canone corrisposta dal conduttore a titolo di acconto sul prezzo di acquisto dell’immobile sarebbe priva di una causa, ossia di una giustificazione causale e costituirebbe pertanto un indebito arricchimento per il proprietario dell’immobile.
A tale riguardo, l’art. 1418 cod. civ., disciplinante la nullità del contratto, prevede, inter alia, che il contratto (così come ogni sua singola clausola) è nullo se contrario a norme imperative, o se privo di uno degli elementi essenziali, tra cui rientra la causa del contratto (art. 1325 cod. civ.). Pertanto, la clausola contrattuale in oggetto dovrebbe correttamente considerarsi nulla per due ordini di motivi: contrarietà a norma imperativa e mancanza di causa.
Nullità per contrarietà alla norma imperativa di cui al comma 1-bis dell’art. 23
Sotto il primo profilo, la clausola dovrebbe essere considerata nulla per contrarietà alla norma imperativa di cui al comma 1-bisdell’art. 23: la disposizione de qua, infatti, sembra non ammettere una diversa previsione contrattuale (invece prevista al comma 5 dell’art. 23 sopra citato, in caso di inadempimento del conduttore), anche perché, diversamente opinando, si finirebbe per snaturare e privare di significato la caratteristica principale del rent to buy, ossia l’imputazione del corrispettivo in parte al canone per il godimento, in parte al prezzo di vendita, con la conseguenza che il contratto, a prescindere dal nomen iuris, dovrebbe essere qualificato quale vendita a rate da cui l’acquirente immesso nel possesso del bene recede perdendo le rate di prezzo già pagate.
Infatti, mentre alle parti contrattuali è riconosciuta ampia discrezionalità nello stabilire la percentuale di canone da imputare al prezzo e quella da corrispondere come remunerazione di godimento, sempre che la parte da imputare al prezzo non venga a determinare la fattispecie della vendita a nummo uno, con conseguente invalidità della clausola che riduce il prezzo della vendita a un mero simulacro, alle stesse non è riconosciuta pari discrezionalità nel variare la destinazione della quota di canone stabilita nel contratto qualora l’operazione di rent to buy non giunga a compimento, ossia non si concluda con la stipulazione del contratto di compravendita dell’immobile locato.ù
Se tale clausola fosse valida, di fatto si otterrebbe una equiparazione tra l’ipotesi di inadempimento del conduttore e l’ipotesi, ben diversa, di mancato esercizio del diritto di acquisto, circostanza che non rappresenta un inadempimento a carico del conduttore ed, infatti, la disciplina legislativa regola le due fattispecie in modo diverso.
In questo modo, inoltre, il concedente che si assicura la ritenzione della componente di canone da imputare al prezzo di cessione, di fatto trasforma quello che dovrebbe essere un acconto sul prezzo di acquisto in una caparra confirmatoria di cui all’art. 1385 cod. civ. (che riconosce, in caso di inadempimento, il diritto dell’accipiensdi trattenere la somma ricevuta
dalla controparte inadempiente), del tutto incompatibile con la struttura del contratto di rent to buy in cui il conduttore assume il diritto – e non certo l’obbligo – di acquistare l’immobile nel termine stabilito e, in cui, il mancato acquisto dell’immobile non può configurarsi come inadempimento.
Nullità per mancanza di causa
Qualora si ritenesse che la norma non abbia natura imperativa, e quindi si optasse per la sua derogabilità da parte dei contraenti, si dovrebbe comunque ritenere nulla la clausola de qua per mancanza di causa: se il conduttore non acquistasse l’immobile, il trattenimento della parte di canone da imputare al prezzo dell’acquisto non incontrerebbe nessuna giustificazione causale.
Invero, in questo caso, difetterebbe sia la causa di godimento, perché trattasi della porzione di canone imputabile per previsione contrattuale al prezzo di vendita, sia la causa di compravendita, perché il diritto di acquisto dell’immobile non è esercitato dal conduttore mancando così l’effetto traslativo che giustifica il pagamento del prezzo, sia, infine, una causa
risarcitoria, perché non ricorre l’ipotesi di risoluzione per inadempimento del conduttore in relazione al quale la disciplina legislativa prevede il diritto del proprietario di trattenere l’intero canone corrisposto dal conduttore a titolo di indennizzo (si osserva come il titolo indennitario sia stato utilizzato dal legislatore in modo improprio in quanto, essendo il diritto al trattenimento delle somme di denaro versato collegato all’inadempimento, la funzione non può che essere risarcitoria).
In sostanza, la clausola contrattuale dovrebbe essere nulla in quanto, poiché la causa del contratto di vendita, ossia la funzione economico – sociale che il contratto stesso svolge all’interno dell’ordinamento, si identifica con il trasferimento del diritto di proprietà contro il pagamento del prezzo, nel caso di specie si verificherebbe la situazione giuridicamente non accettabile per cui il concedente tratterrebbe parte del prezzo della vendita senza trasferire il diritto di proprietà dell’immobile e, quindi, rimarrebbe proprietario del bene e incasserebbe parte del corrispettivo con un ingiustificato arricchimento e con conseguente snaturamento del contratto di rent to buy che si configura come contratto a prestazioni corrispettive.
Né la parte concedente potrebbe invocare la validità della clausola sulla base della libertà contrattuale, sostanziantesi nel principio di atipicità (art. 1322 comma 2 c.c.), sulla prevalenza della clausola pattizia rispetto a quella legislativa in quanto, come noto, i contratti così come le clausole atipiche, sono riconosciuti e quindi validi nel nostro ordinamento solo se
perseguono interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento stesso. Attribuire a un soggetto un arricchimento patrimoniale pari al corrispettivo ricevuto, senza la correlativa diminuzione patrimoniale della perdita del bene venduto, significherebbe tutelare una ingiustificata locupletazione che non può certamente essere ritenuta meritevole di tutela,
così come non può essere ritenuto meritevole di tutela un contratto di vendita che prevede il pagamento del prezzo senza il trasferimento del diritto, in quanto ciò menomerebbe parte acquirente del suo diritto ad acquistare il bene a titolo derivativo, privando il contratto stesso della sua natura sinallagmatica.