E’ stalking pure sui social
Rischia una condanna per stalking chi minaccia sui social.
A questa importante conclusione è giunta la Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 16254 del 17 aprile 2023 ha confermato un anno e sei mesi di reclusione a carico di una donna che pubblicava quotidianamente post intimidatori.
La signora continuava a offendere e minacciare sui social una consulente del giudice addirittura additandola come collusa con la mafia.
Il Tribunale e la Corte d'Appello avevano emesso una condanna severa: un anno e mezzo di carcere.
Ora la Suprema Corte ha reso definitivo il verdetto.
Ad avviso degli Ermellini, infatti, il reato d'atti persecutori è stato integrato non soltanto da condotte consistite in pedinamenti e/o appostamenti, ma anche in reiterate esternazioni, realizzate per il tramite di pubblicazioni su social network. Ciò posto, la Corte ha compiutamente esposto le ragioni per cui ha considerato recessivo il peso di talune incongruenze relative alle dichiarazioni della consulente minacciata, chiarendo l'irrilevanza di quelle difformità, a fronte di un compendio probatorio dal quale è inopinabilmente emerso «il dato oggettivo della riferibilità alla donna dei post e articoli aventi come bersaglio la professionista».
Inoltre, ecco ciò che più conta, nel valutare l'insieme dei comportamenti (appostamenti, pubblicazione di post dal chiaro tenore minatorio) ascritti all'imputata come idoneo a integrare la condotta materiale di molestia e/o minaccia richiesta dall'art. 612 bis, va sottolineato come anche le sole pubblicazioni di post su svariati social network («con cadenza quasi quotidiana... dal contenuto non soltanto diffamatorio, ma anche, per la loro virulenza e ossessiva ripetitività, minatorio») sono sufficienti, da sole, a integrare il reato di atti persecutori.
Nulla da fare neppure sul fronte della diffamazione. Anche in questo caso l'impianto accusatorio ha retto alle obiezioni della difesa.
In particolare, ad avviso dei Supremi giudici, in tema di diffamazione l'esercizio del diritto di critica, reso legittimo dall'interesse pubblico della notizia e dalla funzione esercitata dal soggetto criticato, non autorizza l'offesa rivolta alla sfera privata di quest'ultimo mediante l'uso di espressioni che si risolvano nella denigrazione della persona. Infatti, le espressioni adoperate dall'imputata, ben lungi dall'essere puramente “pungenti”, “forti e incisive” (tale è la tesi difensiva), si sono invece caratterizzate per un tenore tale da oltrepassare il limite della continenza, che è comunque un limite immanente anche all'esercizio del diritto di critica.