Danno non patrimoniale da perdita animale di affezione
È risarcibile il danno non patrimoniale cagionato dalla perdita dell’animale d’affezione, in quanto pregiudizio conseguente alla lesione di un diritto inviolabile della persona umana costituzionalmente tutelato.
Afferma la sentenza in commento (Trib. Pavia, sez. III civile, 16 settembre 2016, n. 1266) che ''Quanto al danno se non può ravvisarsi alcun danno patrimoniale perché un cucciolo di cane meticcio nato in casa e senza alcun valore economico non può aver cagionato una perdita economica ai suoi padroni, diverso è il discorso relativo alla responsabilità non patrimoniale. Nel caso in esame si è infatti in presenza di un danno non patrimoniale conseguente alla lesione di un interesse della persona umana alla conservazione di una sfera di integrità affettiva costituzionalmente protetta. (...) Le sentenze gemelle della Suprema Corte a sezioni unite del 2008 nel delineare la responsabilità per i danni non patrimoniali espressamente prevedono: “la tutela non è ristretta ai casi di diritti inviolabili della persona espressamente riconosciuti dalla Costituzione nel presente momento storico, ma (...) deve ritenersi consentito all'interprete rinvenire nel complesso sistema costituzionale indici che siano idonei a valutare se nuovi interessi emersi nella realtà sociale siano non genericamente rilevanti per l’ordinamento, ma di rango costituzionale attenendo a posizioni inviolabili della persona umana”. È indubbio che, rispetto a dieci anni fa, si sia rafforzato nella visione della comunità il bisogno di tutela di un legame che è diventato più forte tra cane e padrone, cosicché non possa considerarsi come futile la perdita dell’animale e, in determinate condizioni, quando il legame affettivo è particolarmente intenso così da far ritenere che la perdita vada a ledere la sfera emotivo-interiore del o dei padroni, il danno vada risarcito.''
La pronuncia in esame ripropone la vexata quaestio della risarcibilità del danno non patrimoniale da perdita o ferimento dell’animale d’affezione. Perno della fattispecie è la morte di un cane, ucciso mentre si trova all'interno di un terreno di proprietà degli attori, da un colpo di fucile proveniente da oltre la recinzione del fondo. Il giudice civile, liberamente valutando le prove raccolte nel giudizio penale (pur conclusosi con l’assoluzione dell’imputato dal delitto ex art. 544 bis c.p., per difetto di dolo) e considerando accertata la colpa del cacciatore convenuto, ritiene sussistente la responsabilità aquiliana di quest’ultimo e lo condanna a risarcire il danno cagionato. A tal proposito, mentre viene esclusa la stessa configurabilità di un pregiudizio patrimoniale, “perché un cucciolo di cane meticcio nato in casa e senza alcun valore commerciale non può aver cagionato una perdita economica ai suoi padroni”, si riconosce il pregiudizio non patrimoniale, affermando che “nel caso di specie si è in presenza di un danno non patrimoniale conseguente alla lesione di un interesse della persona umana alla conservazione di una sfera di integrità affettiva costituzionalmente protetta”. Come è noto la ristorabilità del danno non patrimoniale da perdita dell’animale d’affezione, già ricondotto da un ampio orientamento giurisprudenziale di merito sotto le insegne del danno esistenziale (ex multis, Giud. Pace Ortona, 8 giugno 2007, in Resp. Civ. e Prev., 2008, 471 e Trib. Roma, 17 aprile 2002, in Giur. di Merito, 2002, 1254 – che tuttavia lo esclude nel caso di specie per difetto di prova), è stata denegata dalle Sezioni Unite “di San Martino”: ciò in quanto, sulla scorta della lettura conforme a Costituzione dell’art. 2059 c.c. accolta in quella sede, il danno non patrimoniale risulta risarcibile solo in presenza di un’espressa previsione di legge o della lesione di un diritto inviolabile della persona concretamente individuato, laddove nell’ipotesi di morte di un animale ad essere leso sarebbe soltanto “un rapporto, tra l’uomo e
l’animale, privo, nell'attuale assetto dell’ordinamento, di copertura costituzionale” (così Cass., Sez. un., 11 novembre 2008, nn. 26972, 26973, 26974, 26975, in Resp. Civ. e Prev., 2009, 38, che riprende, sul punto, Cass. civ., 27 giugno 2007, n. 14846, in Danno e Resp., 2008, 36). Tale arresto tuttavia non è bastato a tacitare il dibattito, determinando piuttosto un mutamento dei termini in cui la questione viene di massima posta. I giudici di merito infatti hanno continuato e tuttora continuano a dividersi circa la risarcibilità ex 2059 c.c. del pregiudizio conseguente alla morte o lesione dell’animale, gli uni invocando in senso contrario la mancanza della lesione di un diritto inviolabile (è l’opinione che da ultimo sembra dominante: Trib. Milano, 1° luglio 2014, n. 8698, ma in obiter; Trib. S. Angelo dei Lombardi, 12 gennaio 2011, in Nuova Giur. Comm., 2011, 663; Trib. Catanzaro, 5 maggio 2011, in Danno e Resp., 2012, 187), gli altri asserendo in senso favorevole la compromissione di un diritto collocato a presidio del rapporto tra il “padrone” e l’animale d’affezione e il cui referente risiederebbe nell’art. 2 Cost., inteso – in consonanza peraltro con le richiamate Sezioni Unite – quale clausola aperta ad un processo evolutivo e perciò idonea a consentire il riconoscimento delle posizioni soggettive via via emergenti nel contesto sociale e ordinamentale (Trib. Foggia, 24 giugno 2011; G. di Pace Palermo, 9 febbraio 2010; Trib. Rovereto, 18 ottobre 2009). La sentenza in commento si inserisce per l’appunto in questo secondo, filone minoritario e poggia la propria ratio decidendi sulla sussistenza della “ingiustizia costituzionalmente qualificata” del fatto dannoso: diventa allora centrale l’indagine circa l’eventuale rilevanza costituzionale del rapporto affettivo instaurato tra la persona e il proprio animale domestico. Al riguardo un consistente orientamento della dottrina (Azzarri, Il sensibile diritto. Valori e interessi nella responsabilità civile, in Resp. Civ. e Prev., 2012, 20 B; Di Marzio, Il riccio e il volpino. La
morte dell’animale d’affezione sotto l’incubo della ragionevole durata, in Giur. di Merito, 2012, 561; Bona, Argo, gli aristogatti e la tutela risarcitoria: dalla perdita/menomazione dell’animale d’affezione alla questione dei pregiudizi c.d. bagatellari (crepe nelle sentenze delle SS. UU. Di San Martino), in Resp. Civ. e Prev., 2009, 1035 e 1036), in critica alle conclusioni raggiunte dalla Corte di legittimità, risolve positivamente il quesito sulla scorta soprattutto della considerazione del recente dato normativo. Il legislatore (non solo nazionale) avrebbe infatti recepito il mutare della sensibilità collettiva, sì da attribuire all’animale una posizione vieppiù differenziata da quella delle altre res e in specie da delineare per l’animale d’affezione uno statuto differenziato, improntato alla logica del rispetto dovuto ad un essere senziente e alla peculiare relazione con esso instaurata dall’uomo (cfr. L. 4 novembre 2010, n. 201 – “Ratifica ed esecuzione della Convenzione europea per la protezione degli animali da compagnia [...] nonché norme di adeguamento dell’ordinamento interno” –; art. 13 TFUE; artt. 544 bis e ter c.p., introdotti dalla L. 20 luglio 2004, n. 189; art. 1, L. 14 agosto 1991, n. 28 – “Legge quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo”). Certamente, in tal senso si muove anche la giurisprudenza penale laddove riconosce la rilevanza dei “diritti degli animali”. Significativa al riguardo è Cass., sez. III pen., 12 maggio 2011, n. 23978, in Dir. e Giust., 2011, 26, 108, la quale, pur escludendo che nel nostro ordinamento sia possibile una tutela giuridica della vita animale che non si correli agli interessi o ai diritti umani, osserva che “i diritti degli animali sono essenzialmente un’emanazione della coscienza sociale, che non è certamente insensibile alle sofferenze degli animali (come testimoniano le varie leggi di protezione degli stessi, e la stessa legislazione penale), ma è soprattutto sensibile a tutto ciò che può costituire nocumento alle componenti spirituali della persona e quindi ai diritti umani” (conf. sez. III pen., 6 maggio 2014, n. 36585, in Foro it., 2015, 2, 564), tale che “il sentimento per gli animali è proiezione dell’essere umano e come tale esso va rispettato”, posto che le relative sofferenze, se ingiustamente provocate, “non possono essere considerate alla stregua di meri accidenti, privi di significato sociale”.